Libri su Giovanni Papini

2012


Giona Tuccini

Cose dell'altro mondo.
Metamorfosi del fantastico nella letteratura italiana del XX secolo.
Atti della giornata internazionale di studi,
Lubiana 29 ottobre 2009

Capitolo:
Il diavolo senza corna. Simbolo e codice del fantastico papiniano, pp. 63-77
6162(63-64-65-66-67-68-69-70
71-72-73-74-75-76-77)-78-79-80



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Il nostro impegno non è quello di essere esenti
da colpe, ma di essere Dio.
PLOTINO, Enneadi 12, 6, 2-3


1. Immane baratrum abyssi


   Comincerò con un dato anagrafico. Il Papini che ci interessa in questa sede ha soli venticinque anni. Ha appena scritto Il crepuscolo dei filosofi (1905), nel quale demolisce i maggiori sistemi di pensiero. La smania di Conoscenza lo rende già indisponente e penoso. È conteso da due voci che parlano, in lui, alterne: una categorica (quella dell'irrazionale), l'altra tipica del maestro di scuola e del moralista. È il Papini che precede la fondazione della Voce, dell'Anima e di Lacerba; un monaco senza dio, intento a far combaciare la sfera delle verità fondamentali con quella della vita pratica quotidiana. È uno scrittore già impeccabile per stile e maniere, dilaniato dalla brama di autodistruggersi e di compromettersi, come nell'Uomo finito quando, preda dell'incertezza, adotta un tono brutale desunto dalle sfere interiori. I suoi scritti non sembrano neanche quelli di un ventenne: risultano organici, sanguigni, impregnati del respiro del critico e detti con la voce del novelliere. Nelle sue prose fantastiche la tentazione di esprimere l'irrazionale e il privato si fa talmente forte da apparentare gli enunciati a quelli di un filosofo. La letteratura è uno strumento della sua personalità, qualcosa di cui servirsi per i suoi scopi che sono già tutti spirituali (ma lui non lo sa). È il Papini che, appena aumenta la dose di sincerità, aumenta anche il rischio di istrioneggiare, di andare sopra le righe; il giovane che si apre il varco, in un mondo noioso, affermando il proprio ingegno con impeto e intransigenza. È un intellettuale che si fa avanti tra camuffamenti, pervaso "pragmatisticamente" dall'aspirazione alla concretezza e all'individualità. Che idea ha del mondo? È un ambiente disturbante — un po' come il suo fisico — e lui deve pagare lo scotto di esserci nato.
   La fuga dalla realtà, perpetrata da Papini, è già tutta postulata nella sua


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celebre autobiografia — Un uomo finito — in cui l'autore traccia di sé un ritratto elegiaco e spietato, con il linguaggio della ripulsa, dell'isolamento e dell'egocentrismo quali tratti fondamentali della sua tumultuosa identità:

   Io sono [...] un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico. [...] Io sono a momenti un povero sentimentale che si commuove nella notte solitaria [...]; un bambino che trabocca di tenerezza [...]; un disgraziato che può sentirsi pieno d'amore per un vecchio sconosciuto, per un amico morto, per un fiore reciso, per una casa chiusa. In altri momenti, invece, divento il lupo hobbesiano dalle zanne che hanno bisogno di mordere e di strappare. Nulla è sacro per me [...]. Mi piace di sgretolare, di rodere, di offendere, di alzare i veli, di spogliare i cadaveri, di levar le maschere. [...] Ma dopo questa furia divoratrice torna fuori il fantastico che immagina storie impossibili, che deforma la realtà, che proietta nel comodo specchio dell'imma¬ginazione i suoi istinti più malvagi, i suoi desideri più forsennati, che crea più in grande gli uomini che odia e gli animali che ama, prendendo dalla vita stessa lo spunto reale per prolungarlo e ingigantirlo nel sogno. [...] Io son rimasto, insomma, ruomo che non accetta il mondo e in questo mio atteggiamento ostinato consiste l'unità e la concordia delle mie anime opposte. Io non voglio accettare il mondo com'è e perciò tento di rifarlo colla fantasia o di mutarlo colla distruzione. Lo ricostruisco coll'arte o tento di capovolgerlo colla teoria 1.

   Le invenzioni fantastiche contenute nel Tragico quotidiano (1906) e nel Pilota cieco (1907) — le raccolte che privilegerò per potermi soffermare meglio sugli influssi pragmatistici nelle prose del giovane Papini — si spiegano dunque a posteriori, secondo quanto apprendiamo dall'Uomo finito, in particolare dalla lettura di quelle righe dove il fiorentino parla del suo disgusto per il reale e per le sue regole, della sua incapacità di accettare l'universo così com'è, col proposito di ricreare, a modo suo, un reale diverso e più perfetto 2. Tale atteggiamento, nondimeno, si spiega secondo il valore civile dell'arte che non è altro che un "documento sociale": come niente e nessuno ha vietato alla scienza di rincorrere l'utile, così l'arte deve pensare a difendere la forza dell'irrazionale. E Papini, come i simbolisti, si costruisce un mondo suo proprio grazie al potere demiurgico della scrittura, e si sente chiamato al compito supremo di svelare l'ignoto. La rinuncia, sia pur provocatoria, al mondo e la consapevole negazione di un Altro da sé precostituito con cui identificarsi, corrisponde — sul piano letterario — ad un'esperienza dissacrante


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e avanguardistica (che fu anche di Soffici e Palazzeschi), attraverso l'inserimento dell'assurdità nell'ordine; sul piano autoriale, invece, tale rifiuto comporta lo smarrimento di un'identità introflessa. Infatti, è nella propria immagine che Papini trova il solo interlocutore, l'autore e il creatore di una realtà alternativa a quella respinta e negata; soltanto nel proprio essere scorge un mondo immaginario da lui definito «torbido e chiuso, dove l'ombra soverchiava la luce e il tragico usciva fuor dall'ordinario; un mondo abitato da giovani pallidi e senza illusioni, da uomini posseduti e martoriati da idee fisse e da nuovi spaventi; un mondo in cui gli atti eran radi ma turbinosi i pensieri; [...] il mio mondo: oscuro e terribile» 3. Che poi è la dimensione che suggerisce gli spunti e gli intrecci dei volumi papiniani più attitudinalmente pragmaticisti — i già citati Il tragico quotidiano e il Pilota cieco — nonché le inquietudini del successivo Parole e sangue (1912) che Borges riscoprì e rimise all'attenzione degli intellettuali suoi contemporanei. Sono pagine — queste del giovane Papini che sulle colonne del «Leonardo» si firmava "Gianfalco" — dove l'obsoleta separazione tra mondo organico e inorganico, tra anima e corpo e tra physis e psiche, viene abbattuta fragorosamente, consentendogli di anticipare temi ed esiti artistici che, da lì a breve, avrebbero ritrovato rispondenza nella metafisica di Giorgio de Chirico 4, preannunciando tra l'altro l'esperienza surrealista di Bruno Corra e Arnaldo Ginna che, insieme a Emilio Settimelli — il Direttore dell'«Italia futurista» — prestarono particolare attenzione all'esoterismo, all'onirico e a quegli stessi misteri —paranormale incluso — che l'autore de Il tragico quotidiano si proponeva di sondare nella sua Prefizione 5. Tutte queste affinità e anticipazioni, quindi, ci portano ai primordi della questione sul fantastico nostrano, perché i racconti papiniani del 1906 e del 1907 non solo esprimono gli esiti di una moderna sensibilità letteraria di stampo europeo (Baudelaire, Poe, Laforgue, E.T.A. Hoffman, Maeterlinck, Goethe, Byron), ma presentano per la prima volta in Italia i temi cruciali della cultura surrealista e magica — i motivi della bambola e del manichino in primis — che saranno poi le cifre distintive non soltanto della pittura "metafisica" del già citato De Chirico, ma anche del


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realismo magico di Bontempelli e di Savinio 6.
   Sulla base di questi presupposti, diremo dunque che il filone letterario metafisico — inaugurato da un Papini-Gianfalco che sperava che il Pragmatismo servisse da purgante contro tutte le impurità del Positivismo — è smaccatamente psicologico, secondo le istanze del «Leonardo» e del pensiero di William James. Le premesse teoriche per una estetica del fantastico fondata sugli aspetti di quella realtà che sfugge alla distrazione umana, sono descritte dall'autore stesso ancora nella Prefazione alla I edizione de Il tragico quotidiano, dove si apprende che il possesso della realtà si consuma nella coscienza più intima e profonda di ogni uomo:

   La sorgente del fantastico ordinario è materiale, esterna, obiettiva. Io ho voluto trovare un'altra sorgente. Io ho voluto far scaturire il fantastico dall'anima stessa degli uomini, ho immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale dinanzi a fatti ordinari. [...] li ho posti davanti ai fatti della loro vita ordinaria, quotidiana, comune ed ho fatto scoprire a loro stessi, tutto quello che c'è in essa di misterioso, di grottesco, di terribile. [...] Noi siamo abituati a questa esistenza e a questo mondo e non ne sap¬piamo più vedere le ombre, gli abissi, gli enigmi, le tragedie e ci vogliono ormai degli spiriti straordinari per scoprire i segreti delle cose ordinarie. Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il vero sogno della fantasia. [...] Io credo fermamente alla superiorità di questo fantastico interno sul fantastico esterno degli altri novellieri. [...] L'anima umana è più grande dei più grandi imperi e se ci saranno ancora scoperte da fare nel mondo non le faremo che addentrandoci in essa senza timori. "Sappi vedere — cantava William Blake — il mondo in un grano di sabbia, tutto il cielo in un fiore selvaggio!" Ma il nuovo imperativo è questo: sappi vedere tutto il mondo in te stesso 7.

   Da queste righe emergono almeno tre punti essenziali dell'orientamento fantastico papiniano:
   I. L'approccio al reale si basa su motivazioni e impulsi subcoscienti (approccio che rimanda inevitabilmente al saggio sul perturbante freudiano e agli studi di Otto Rank sul doppio, anticipando altresì l'esperienza esplorativa dell'inconscio e la visione illogica del reale promossa dal surrealismo).
   II. L'universo del fantastico papiniano si situa in un contesto ordinario, dove lo stupore scaturisce in seno ad eventi abituali, normali, sconvolgendo


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l'iter consueto (echi di questa modalità percettiva saranno reperibili nel realismo magico di Bontempelli, nell'Ebdómero dechirichiano e nella visione del reale, sospesa tra apparenza e mistero, di Savinio). Il fantastico, quindi, come amplificazione della realtà. La sua irruzione nel quotidiano è talora segnalata graficamente da Papini con l'uso del corsivo, come ad esempio nella novella Due immagini in una vasca 8 e nella Storia completamente assurda 9 (in quest'ultimo caso l'autore sottolinea in corsivo la straordinarietà dell'evento da cui prende stoffa il racconto).
   III. L'esperienza del fantastico è anzitutto solipsistica, secondo l'imperativo "sappi vedere tutto il mondo in te stesso", uno γνῶθι σαυτόν novecentesco. Ma non imbrogliamoci: il "fantastico interiore" non è un'invenzione papiniana. Maeterlinck aveva parlato dell'esistenza di un tragique quotidien «bien plus conforme à notre étre véritable» dieci anni prima di Papini, riferendosi al teatro 10. I sentieri occulti del fantastico, nella scrittura dell'intellettuale toscano, sono per lo più monologici — su questo aspetto si è soffermato Andrea Vannicelli che ha osservato come l'interlocutore delle prose del Tragico quotidiano sia Papini stesso 11 — e richiedono pragmatisticamente una scelta volontaristica, eroica in quanto liberatrice, soteriologica, come si apprende dalla prosa Profezia del prigioniero:

   E verrà il giorno del pianto [...]. La tua anima sarà come una città devastata, come una torre distrutta. E vorrai ancora scavare i profondi strati di cenere per ritrovare nel cuore del mondo qualche fiamma nascosta. Ma tutto sarà spento, tutto sarà freddo [...]. Tutto sarà morto perché tu sarai morto. [...] Allora, amico e fratello mio, una sola cosa ti resta: la tua vecchia caverna, il tuo covo misterioso, la tua fortezza chiusa che abbandonasti il giorno della pienezza. Tu ricordi ancora le mura alte e nere, i laberinti sotterranei, la tenebra tentatrice. Torna, o medico moribondo, alla tua tana di fanciullo!


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Abbi la forza di murarti di nuovo nella tua clausura, serrato con sette chiavi, chiuso con sette suggelli. Sii il tuo prigioniero e il tuo carceriere. [...] E lascia dietro le tue spalle, al di fuori della porta, gli enigmatici fantasmi che tu chiamavi gli altri 12.

   A quanto pare la prigione o la grotta (di platoniana memoria) non è il posto peggiore per lo spirito che, messo sotto chiave, si espande. Ma cosa può succedere ad un intellettuale che rientra nella caverna per costruirsi un mondo per conto suo? In parte lo abbiamo detto: al rifiuto della realtà monotona, ripetitiva, rassicurante, consegue la perdita dell'Altro e quella della propria identità. Del resto, come potrebbe essere altrimenti quando si sa così poco di sé, quando non si ricorda niente, quando ci si ritrova in un nebbione impenetrabile? Non esiste più oggetto o persona con cui confrontarsi, gli uomini sono ombre passeggere sullo schermo della sensibilità dell'autore, fantasmi evocati dalla sua volontà, burattini del suo teatro interiore 13. Unico sopravvissuto in una "piazza d'ombre" è il soggetto smarrito di fronte agli effetti della sua stessa repulsa, intento a ricostruire nella sua opera una realtà "altra", diversa da quella respinta; realtà conforme ad un'identità tutta da ricercare o da rifondare. Ciò spiega gli esiti letterari della frantumazione del soggetto papiniano e la costruzione ad arte di personaggi scissi, come quello della novella L'uomo che ha perduto se stesso, dove il protagonista, durante una festa in maschera, si guarda nello specchio e non riesce a riconoscersi in mezzo all'immagine riflessa degli altri ospiti mascherati 14. Oppure come


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il personaggio invisibile, negletto da tutti, della prosa Chi sei? confluita nel Pilota cieco dove, tra l'altro, troviamo un attacco degno di quel Plotino che cominciava l'Enneadi proprio con l'interrogativo «Uomo chi sei?»:

   Ora gli altri mi rinnegavano e affermavano di non conoscermi e allora io rinnegavo quello che c'era di loro in me stesso e non volevo riconoscere come mio ciò che mi avevano imposto. E senza paura domandano ora a me stesso: Chi sei? [...] Io sono uno per cui gli altri non esistono. Questa cecità e amnesia degli uomini verso di me era una prova che in nessun altro modo avrei potuto vincere. Gli uomini non mi conoscevano più ma io non ero stato soppresso. Avevo ritrovato me stesso 15.

   L'impossibilità di amare o di essere amati ricorre moltissimo nei racconti papiniani. Il prototipo è sicuramente il Don Giovanni di Colui che non poté amare, un povero diavolo alla sconsolata ricerca di un ideale introvabile, forse impossibile 16. E da qui deriva l'isolamento e il senso di estraneità che pervade La preghiera del palombaro, grido confluito anch'esso ne Il tragico quotidiano:

   Mi rivolgo a te, uomo dalle precoci e insaziabili perversità e dai segreti ben custoditi, e ti prego, in nome della terra da cui nascesti, della terra che ti nutre, della terra dove ti trascini, ti prego di dirmi perché non comprendo e non amo la vita degli uomini 17.

   Molti protagonisti della raccolta del 1906 sono capaci di «vedere il mondo comune in modo non comune» 18. Le loro conflittualità e le loro lacerazioni psicologiche sono la proiezione, mediata dai processi scrittori, di eventi interiori all'autore. Sennonché, questi personaggi sono gli organi motori di un'esplorazione nelle terre ignote del non-coscio e dell'Insondabile, e rappresentano la metamorfosi delle immagini che Papini ventenne, sbattuto fra iridiscenze simboliste e aloni spirituali precari, veniva elaborando di se stesso. Le loro aporie e le loro vergogne formano la sostanza stessa del protoplasma papiniano; i loro profili sono identici a quello visibile, esteriore, che denuncia l'autore al mondo. Simbolista è la figura del palombaro che, dopo aver visitato le profondità del mare, non accetta la vita "in superficie"


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degli uomini (l'aria esterna, a respirarla, deve mortificare il cuore del palombaro, al pari di una frustata; esacerba la sua tristezza e lo assale con la nostalgia dell'abisso). Simbolista il tema del sogno che ricorre nel volume, come nell'incipit de I consigli di Amleto; simbolista, infine, tarlato di certo crepuscolarismo, il tema dell'amore negato, dell'amore impossibile che non si è mai emancipato dalla sfera del sogno per diventare reale.
   Il non amare la vita degli altri, il mondo degli altri, combacia — lo abbiamo visto — con la volontà di recludersi, di mandarsi al confino o, per lo meno, di rifugiarsi in un luogo appartato in cerca della propria identità devastata fino allo sdoppiamento. Il sosia, il gemello, l'altro sono luoghi dell'inconscio che, emergendo, si oppongono tumultuosamente alla condizione consapevole e disintegrano l'unità dell'Io, precipitandolo nella voragine della pena del non essere. Lo spazio ideale per l'elaborazione da parte di Papini del tema del doppio — che fu già di Freud e di Rank — è la novella Due immagini in una vasca, in cui il protagonista ritorna nella cittadina dove aveva studiato per cinque anni, solo per rivedere il suo viso nella vasca morta, piena di foglie, di un giardino brullo 19. In quel luogo decadente e funereo, un vago barlume del passato gli si fa strada nella mente. Un tempo, quando si ritirava lì a studiare, gli piaceva fissare i suoi occhi nelle profondità torbide di quelle acque ferme, aspettando che i connotati del volto si disegnassero sotto forma di un'immagine capace di irretirlo, con l'illusione di poterci rivedere l'universale e l'eterno. Ora, a tornare è il passato che, a distanza di sette anni, si ripresenta al personaggio, sulla cupa superficie del ristagno. L'Io di ieri viene rilasciato dalle acque come lo spirito infetto di un Narciso rovesciato. A tornare reale è ciò che l'Io di oggi deve quotidianamente ricacciare, il perturbante freudiano 20 che nel testo di Papini si esplicita sotto forma di arcaica eruzione di una psiche primitiva:

   Volli ancora rivedere la mia faccia nell'acqua e mi accorsi ch'era diversa, assai diver¬sa da quella ch'io ricordavo così lucidamente. L'incanto di quella vasca, di quel luogo mi riprese. Mi sedetti sopra una delle scogliere artificiali e colla mano mossi le foglie morte per fare uno specchio più grande al mio volto impallidito e trasfigurito. Stavo da alcuni minuti mirando la mia immagine e pensando alle strane leggi del tempo, quando vidi disegnarsi nell'acqua, accanto alla mia, un'altra immagine. Mi volsi impetuosamente:


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>un uomo s'era seduto accanto a me nella vasca. Lo guardai trasognato — lo guardai ancora e mi parve che mi somigliasse. Volsi ancora l'occhio alla vasca e contemplai di nuovo la sua immagine riflessa sul cupo fondo. In un momento mi accorsi della verità: la sua immagine rassomigliava perfettamente a quella ch'io riflettevo sette anni innanzi 21.

   Nella Storia completamente assurda, contenuta nel Pilota cieco, succedeva qualcosa di vagamente analogo: lì, il protagonista, intento a scrivere le sue memorie in modo falso e provvisorio, è sorpreso dalla visita inattesa di uno sconosciuto e, sbigottito, si sente leggere, per iniziativa dell'intervenuto, la sua vera storia, quella precisa e completa. Simili accadimenti succedono quando la realtà dell'immaginazione prende il sopravvento sulla concretezza del quotidiano che è, poi, la dimensione rifiutata. A tale proposito, nella sua preziosissima autobiografia, confessa l'Io-Dio papiniano:

   E così mentre aspettavo di piegare e rifare coi prodigi della volontà sublimata, andavo creando il rifugio provvisorio popolato dai docili spettri dei sogni. La poesia è scala alla divinità e il lavoro dell'arte è già principio di creazione. Poeta e profeta per oggi, e Dio, forse, domani 22.

   2. Il diavolo dentro

   Cosa c'è là in fondo, oltre la bocca dell'abisso? L'Io-Dio, e l'uomo che mira a parificarsi a Dio è diabolico intrinsecamente ed estrinsecamente. Diabolica è la voglia di diventare grandi. Tale considerazione trova conferma ne Il tragico quotidiano, in particolare nella novella Il demonio mi disse, in cui Papini dà una lettura del peccato originale da vero contrastatore di Dio: gli uomini sarebbero tutt'ora in grado di essere Dio, qualora decidessero di mangiare ancora, fino alla sazietà, e sino a finirli, i frutti dell'albero proibito — quello della gnosis — il cui seme è diffuso e ha prodotto robusti alberi anche al di fuori del paradiso terrestre. Ecco le parole di Satana ad un interlocutore imprecisato:

   Ma io credo, eccellente amico, e ve lo dico per quanto voi altri uomini non prestate molto credito ai consigli del Demonio, io credo che voi sareste ancora in tempo a finire i frutti dell'albero, sareste ancora in tempo a divenir Dei. Voi non ricordate più


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il cammino del Paradiso Terrestre, ma io so che qualche seme di quell'albero è volato fuori e s'è già fatto arbusto. Si tratta di cercarlo nelle vostre foreste, educarlo perché cresca e dia ancora una volta i suoi frutti
23.

   Già si intuisce a quali conclusioni conduca questo modo di pensare: il diavolo è l'incarnazione dell'intelligenza di un Papini dilaniato dall'incertezza ed animato dalla tentazione del libero esame. Qesta incertezza — il diritto all'incertezza — serve solo a dare autorità all'uomo Papini aperto all'Assoluto, suo malgrado, e ai suoi insegnamenti disseminati nelle opere oggetto della nostra indagine. Perciò, Lucifero — alla stregua di Caino, i sodomiti, Esaù, demonizzati nell'Antico Testamento — diventa il portatore di una Conoscenza rivelata con valore salvifico, che il testo biblico ha cancellato e trasformato in manifestazione del male etico e della ribellione a Dio. Naturalmente, l'osservanza del dettato fantastico, che pur avvertiamo in queste novelle, non induce il fiorentino a trascurare la necessità di impegni morali assai più stringenti, quale la chiamata al risveglio tenuta, tempo prima, nell'articolo premiale de «Il Regno», in cui il ruolo del "pescatore di anime" venuto — a imitazione di Luca evangelista — a "ignem mittere in terram" è pressappoco lo stesso del serpente gnostico, del grande seduttore, ossia quello di aprire la via alle coscienze, risvegliando gli uomini dal sonno e, per mezzo della Conoscenza, ricondurli alla patria originaria (il giardino dell'Eden prima del peccato originale) 24. La seduzione, si sa, specialmente quella intellettuale, è nella morale cattolica — che fa di tutto per velare ai mortali le apparizioni sfavillanti dei Superni — un comportamento altamente lesivo. Lesiva, la ricerca dell'identità più profonda, fino al nocciolo indistruttibile del divino annidato nell'uomo, e tuttavia atto necessario per dare senso alla propria vita.
   Nel 1909, durante la seduta del 9 gennaio della Società Psicoanalitica di Vienna, l'editore Hugo Heller aveva presentato una relazione sulla storia del diavolo, e Freud aveva avanzato una sua prima interpretazione, rilevando che il diavolo personifica componenti sessuali, particolarmente connesse all'erotismo


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anale. Heller riprendeva, così, le ipotesi elaborate dal padre della psicanalisi nel breve saggio Charakter und Analerotik del 1908, nel quale scriveva che «certamente il diavolo non è altro che la personificazione della vita pulsionale inconscia rimossa». Ipotesi rinnovata da Herbert Silberer che, nel 1910, tornava sull'argomento ed insisteva: «Il diavolo e le sinistre figure demoniache dei miti sono, sul piano psicologico, simboli funzionali, personificazioni degli elementi rimossi e non sublimati della vita istintiva» 25. Questa linea di lettura si arricchì, poi, con il contributo di Ernest Jones che, nel 1912, scrisse sulle superstizioni medievali e, a proposito della storia del diavolo, affermò che essa coincideva con la storia della paura e dell'angoscia proprie degli psichismi personali. Molto di quello che era stato asserito in questi saggi aveva preso agli occhi di un Papini straordinariamente intuitivo, una chiarezza precoce e un rilievo inusitato. In questo paragrafo stiamo vedendo, infatti, che la credenza del demonio rappresenta in gran parte, anche per lo scrittore toscano, l'esteriorizzazione di un desiderio residuo, derivante dalla smania di conoscere i limiti umani di fronte all'onnipotenza celeste e, da lì, rivendicare la propria primigenia grandezza. Approfondiamo subito l'argomento.
   Agli inizi del Novecento, con il Positivismo al tramonto, il diavolo — dal chiuso della teologia demoniaca e dal labirinto di arcaici discorsi dottrinali — si palesa quale presenza negromantica e si attesta nel quotidiano attraverso i simboli di un immaginario chiaramente opposto alla mentalità logica e scientifica. Il gusto del demonio e la strisciante suggestione di energie incontrollabili che premono sui meandri dell'inconscio, determina turbamenti ed inquietudini primaverili nel pioniere mosso alla scoperta dei mondi, nel giovane Papini, appunto, che dietro il paravento di certi personaggi negativi e fallimentari, pretendeva di andare in cerca della "morte" 26 e invece era la grandezza che cercava. Prima ancora che nel Tragico quotidiano, il diavolo era stato oggetto di indagine da parte dell'autore e, soprattutto, aveva già i caratteri e l'umore del personaggio de Il demonio mi disse. Mi riferisco all'articolo Marta e Maria, apparso sul «Leonardo», dove scrive Papini: «Satana è troppo gentiluomo per tendere lacci a chi lo tiene in così alto concetto. Forse, anche, è stanco di noi e della nostra povera vita e non deve provare più gusto


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a tentarci» 27. Questa affermazione spiega anticipatamente il senso della battuta del demonio, nella novella del Tragico quotidiano, quando confessa all'Io narrante: «ormai gli uomini non m'interessano più». Nel passo di Marta e Maria, così come ne Il Demonio mi disse, l'abitudine ha reso meno feroce il tormentatore degli uomini, che non ha più neppure quell'aspetto mostruoso, caudato e cornuto che il medioevo gli aveva affibbiato. Adesso ha il volto di un uomo, e Papini ci vede addirittura il suo doppio:

   È alto e molto pallido: è ancora abbastanza giovine, ma di quella giovinezza che ha vissuto troppo e ch'è più triste della vecchiaia. Il suo volto bianchissimo e allungato non ha di particolare che la bocca sottile, chiusa e serrata, e in più una ruga, unica e profondissima, che s'innalza perpendicolarmente fra le sopracciglia e si perde quasi alla radice dei capelli 28.

   Descrizione speculare, questa, a quella ripresa successivamente nell'Uomo finito, dove Papini torna a descrivere se stesso — bambino — soffermandosi sulle sue caratteristiche fisiche più patentemente diaboliche, vampiresche:

   Si vede subito che quegli occhi non son fatti per tingersi del celeste del cielo: son bigi, son nuvolosi di suo. Quelle gote si vede bene che son bianche, che son pallide e che saranno sempre bianche e sempre pallide: diventeranno rosse soltanto per fatica o vergogna. E quelle labba così chiuse, volontariamente chiuse, non son fatte per aprirsi al riso, alla parola, alla preghiera, al grido. Son le labbra serrate di chi patirà senza la seccante debolezza dei lamenti. Son labbra che verranno baciate troppo tardi 29.

   Il demonio del Tragico quotidiano, quindi, non rientra nel novero di quei personaggi-simboli orrendi, come il "seminatore di spavento" protagonista della novella L'ultima visita del gentiluomo malato 30. Non è l'abitatore di una cavità piena di ossa, lo stallone della strega, il firmatario di torture indicibili. Si tratta, piuttosto, di un satanasso maggiore stanco di paladineggiare, umanissimo, intellettualizzato (quello che Papini difenderà, poco prima di morire, nel saggio del 1953); un angelo fulminato e depurato della sua malignità, a tal punto da capire che la tentazione è perfettamente inutile. Adesso


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è l'uomo a cercarlo, non il contrario. Il suo migliore compagno è colui che si ritrova preda dell'ignoranza, delle aporie che tormentano il pilota cieco:

   Così è accaduto che ho scoperto di essere il Pilota cieco. Ormai non posso negare di essere il Pilota cieco. Lo sono stato fino ad ora, per molto tempo, e continuo — povero sciagurato! — ad esserlo. [...] Ah Pilota cieco! Povero Pilota cieco! Tu volesti destare gli oziosi marinai, tu volesti forzarli a navigare nell'oscuro mondo, tu volesti guidare le loro barche sdrucite e i loro lenti vapori, ma tu stesso non sapevi dove condurli e quando ti avessero chiesto di scendere non avresti avuto intorno che le acque e il miraggio sempre nuovo di un'isola sempre non raggiunta 31.

   Dubitando, l'uomo pecca di sua spontanea volontà, senza bisogno di sol-lecitazioni esterne. Ora il demonio lascia in pace gli uomini perché sono loro a correre da lui; il genere umano non è più un nemico da conquistare, ma un suddito fedele, disposto a pagare il pegno, per riappropriarsi del diritto al dubbio laico e alla primigenia onnipotenza. Il cerchio si chiude: se Dio è certezza, il diavolo è esitazione che, come abbiamo visto, nella letteratura fantastica papiniana assume la fisionomia dell'autore dissanguato dal vampiro dell'intelletto (occhi bigi, gote bianche, labbra chiuse). L'intuizione del demonio che prende nei modi, nelle fattezze e nell'eloquio i connotati di Papini, è stata per la prima volta di Prezzolini che, in una lettera del 15 ottobre 1905 da Perugia, scriveva all'amico Giovanni:

   Il tuo Colloquio sul "Campo" mi è piaciuto come un colloquio con te. Contami fra gli Adoratori del Serpente. Il principio è un po' baudelairiano. Ma il resto è tutto tuo. Quanto agli occhi del diavolo posso dirti d'esser stato più fortunato di te, ché gli ho visti parecchie volte, non quante avrei potuto forse... — tu li hai visti, credo, solo nello specchio 32.

   La crisi dualistica, come opposizione di termini derivanti dalla storia dell'Uno iniziale, si verifica, al primo accenno di tale storia, come frattura di un'originale immobilità e perfezione (Dio), e al termine di tale storia, come esito finale di un processo di degradazione delle realtà create e emanate (l'uomo che aspira ad accedere alla grandezza divina e alla Conoscenza). Nella storia della salvezza, il verbo perfetto della Luce assume proprio la forma


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mostruosa del serpente per penetrare nella matrice impura (le Tenebre). Il serpente-verbo a cui si riferisce Prezzolini — un serpente salvatore opposto al serpente demiurgo — rompe così i legami che trattenevano l'intelligenza perfetta. Ora, nel "mondo universo" di Papini, la necessità della rottura con tale immobilità protocollare, rigidamente imposta dalle Scritture, è garantita nel giovane attraverso la febbre dell'impresa gnostica (la voragine Uomo/ Dio), e nell'anziano con l'esperienza intima del dubbio laico, e quindi attraverso la re-integrazione del diavolo nella propria spiritualità: «Che m'ispiri Iddio o il Demonio non importa: ma che qualcuno più grande di me, più sano di me, più veggente di me, più pazzo di me, parli con la mia bocca, scriva colla mia mano, pensi col mio pensiero» 33.
   Abbiamo osservato che Nel demonio mi disse il narratore cerca di carpire a Satana il segreto dell'onnipotenza, radicato persino nella citazione qui sopra, ma stiamo bene attenti: esso è sì indice di quel delirio di onnipotenza che Papini soffre nei primi anni del Novecento, sulla scorta di un D'Annunzio che ammoniva «Uomo, non c'è Dio se non sei quello!»; ma in primo luogo indica l'inquietudine di un giovane che, spingendosi oltre i suoi limiti — quelli peraltro imposti dal Dio veterotestamentario nel Genesi, quando se la prende con il Primo Uomo per aver mangiato il frutto gnostico — si sente spatriato al cospetto dell'Altissimo, in balìa delle ombre, attanagliato dal dubbio. Trattando con il demonio, come Faust trattò con Mefistofele, Papini cerca di emanciparsi dall'ignoranza innaturale dell'individuo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ora, Vannicelli, indugiando proprio su questa novella, si limita a opinare che per il ventenne il demonio è il miglior esempio di essere superiore che non sia Dio stesso, e lo definisce il personaggio che meglio risponde al ribellismo papiniano e alle mode culturali romantiche (E.T.A. Hoffmann, Byron e a Ann Radcliffe citati da Mario Praz nel suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica). Tutto giusto. Ma riducendosi a verificare le fluttuazioni romantiche e simboliste nella versione che Papini dà del tentatore, Vannicelli proscrive ed omette di considerare in essa la risonanza spirituale — che a me pare più urgente — assai vegeta sotto la patina proto-religiosa del pragmatismo papiniano.
   In altra sede 34, ho cercato di spiegare come la personalità del demonio, nell'opera di Papini, non è mera figura letteraria che risorge dai libri per prestarsi al racconto dell'esistenza quotidiana, come Don Giovanni e la


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principessa di Thule, ma è la trasposizione narrativa di quell'incertezza laica destinata a rimanere illiquidata in Papini anche dopo la conversione 35- L'autore potrà accettare il mondo ordinario soltanto sovvertendolo, separandosi dall'appecoronamento e dal torpore di molti anche — perché no? — avvalendosi di una presenza rischiosa e inquietante, quale quella, appunto, del diavolo. Il potere sovversivo del demonio è già tutto dichiarato nella sua radice etimologica (diabavllein / Διάβολος, colui che separa). In questa direzione ritengo vadano lette le seguenti parole di Papini che, manifestamente, alludono al demonio come il male insidioso (e necessario) della riflessione:

   La conversazione del Demonio è la più profittevole e gradevole ch'io conosca; è di quelle che fanno capire il mondo, e soprattutto il mondo ch'è in noi, assai più dei piccoli e grossi trattati di propedeutica che si leggono alla biblioteca universitaria di Heidelberg 36-

   A questo punto sarà chiaro in che modo il diavolo agisca nel Tragico quotidiano come sperimentazione della lezione pragmatista e, conseguentemente, come figura mefistofelica mediante la quale rivendicare il diritto di vivere le proprie tenebre. Altrimenti detto, è un fantasma parlante attraverso cui si attua la speculazione filosofica, poi religiosa, papiniana; quella cominciata, in rottura col Positivismo, lo Scientismo e il metodo storico più ottenebrante, per i rami schopenahueriani e nietzscheiani, agli albori del Novecento, e poi attestatasi sulle posizioni del Pragmatismo magico del Papini collaboratore al «Leonardo». Allo stesso modo, ricorderemo il processo di personalizzazione che il soggetto demoniaco subisce nelle prose fantastiche oggetto della nostra riflessione: il diavolo è, anzitutto, interiore ed intrattiene con Dio rapporti più cordiali di quanto s'immagini 37 . Necessario alla postulazione, da parte del Papini pragmatista, di una nuova metafisica dei poteri occulti, opportunamente gestita e dominata dall'Uomo-Dio, il Diavolo è lo strumento per scandagliare l'ignoto e l'inconscio e, dopo la conversione del 1919, un interessante enigma per gli studiosi della vita letteraria papiniana, straordinariamente pervasa dal nescio agostiniano.

Università di Cape Town


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